Essere liberi, fino alla fine
Intervento inviato nel corso del convegno “Fine vita: il diritto di decidere”, organizzato dall’Asarp e dalle associazioni aderenti al comitato del Mese dei Diritti Umani, tenutosi a Cagliari il 28 marzo 2015.
Confido sulla vostra comprensiva indulgenza se, trovandomi nei fatti – almeno psicologicamente – in una posizione di extra time, salterò considerazioni di carattere filosofico-letterario per puntare dritto, a partire dalla mia esperienza, al cuore del problema.
Dovendo vivere, dal settembre del 2013, attaccato 24 ore su 24 ad un respiratore, che insuffla aria nei polmoni attraverso un tubo collegato al mio naso ed essendo consapevole dell’inevitabile progressivo peggioramento delle mie condizioni, circa due mesi fa, ho chiesto un colloquio con il medico rianimatore designato dal Servizio Sanitario Nazionale. Nel corso del colloquio, con la voce di mia moglie – che è anche, ai sensi di legge, il mio amministratore di sostegno – gli ho chiesto se avrei potuto contare su di lui se e quando, come ho scritto in un documento firmato alla presenza di due testimoni, avessi deciso, previa sedazione, di farmi scollegare dal respiratore.
Dopo un imbarazzato e penoso tentativo di cambiare discorso, il medico alla fine mi ha detto di no, che lui non era disponibile.
Eufemisticamente turbato per il rifiuto all’assistenza, non ho voluto conoscere le sue motivazioni, se fossero per timore di conseguenze penali o per convincimenti religiosi.
Così ho sperimentato sulla mia pelle quanto l’art. 32 della Costituzione e le numerose sentenze che autorizzano il malato consapevole ad ottenere la interruzione di trattamenti sanitari siano di remota applicazione.
Nel paese delle amnesie e delle obiezioni, per ottenere il rispetto di un diritto occorre ricorrere a sotterfugi o suppliche, se non si dispone del tempo e della forza d’animo di Beppino Englaro, ignobilmente accusato di assassinio dai reazionari sia laici sia clericali, che solo dopo anni di battaglie ottenne l’interruzione, con il permesso della legge, dei trattamenti che tenevano artificialmente in vita Eluana.
Serve dunque un’azione di diritto positivo, serve una legge che affermi e tuteli il riconoscimento di un diritto fondamentale dell’individuo, nella applicazione del principio di autodeterminazione, principio intangibile per ogni essere umano e non solo per un Papa.
A nessuno di noi sfugge la complessità della produzione di norme adeguate in materia. Ben vengano allora incontri come questo di oggi – per il quale rivolgo il mio sentito ringraziamento agli organizzatori e a tutti i partecipanti – se si ottiene l’obbiettivo di mettere a fuoco i punti controversi, prospettando per essi una soluzione.
Io però vengo da una scuola che, per trasformare la realtà, alla elaborazione delle idee ha sempre accompagnato l’azione consapevole e organizzata degli uomini. D’altra parte, se serve una legge, servono di conseguenza dei legislatori convinti e determinati e serve dunque una politica onesta, lungimirante e coraggiosa. E se questa stenta ad affermarsi, sta ai liberi e forti il compito di promuoverla, senza dividersi in guelfi e ghibellini.
Contro l’indifferenza e l’ipocrisia, contro la pavidità e l’ignavia, si mettano in movimento le armi antiche e moderne della democrazia: le assemblee, le proteste diffuse, le raccolte di firme. Nei consigli comunali e nelle piazze, nei luoghi di lavoro e di studio, di fronte alle chiese.
Come quarant’anni fa per la difesa della legge sul divorzio e per la legalizzazione dell’aborto, se vogliamo che la Repubblica compia un grande passo in avanti di civiltà dotandosi di una legge avveduta e rigorosa sul fine vita, occorre che scenda in campo l’Italia migliore, l’Italia pulita e gentile, generosa ed appassionata, l’Italia della giustizia e della libertà.
Marzo 2015
Walter Piludu