Da Walter Piludu agli ultimi casi di pazienti sardi che hanno detto stop alle cure, nella legalità.
In un anno e mezzo, senza il clamore del caso Lambert o degli altri simboli della lotta per il fine vita – da Welby a Dj Fabo – cinque sardi hanno chiesto di interrompere le cure e di spegnere le macchine: stop alla ventilazione meccanica, nessuna idratazione o nutrizione artificiale. E sono morti, come desideravano, visto che la malattia non lasciava altre prospettive.
Sono morti, nel rispetto della loro volontà e circondati dagli affetti familiari, non perché non amassero o rispettassero la vita, ma perché la malattia non lasciava loro altre prospettive.
Quando i supporti di sostegno vitale non sono “soggettivamente” idonei ad alleviare le sofferenze e a consentire condizioni di vita sopportabili, ciascuno deve poter decidere per sé come affrontare la fine della propria esistenza.
Se questo oggi avviene nella legalità – e in condizioni di uguaglianza per tutti – lo si deve anche a chi, per tale risultato, si è battuto fino alla fine.
Fino a poco tempo fa non c’era la possibilità di rifiutare le cure. Poi è arrivato Walter Piludu, l’ex presidente della Provincia di Cagliari morto nel 2016 dopo aver chiesto e ottenuto dai giudici il via libera a staccare le macchine che lo tenevano in vita. Anche dal dibattito stimolato da quella sua ultima battaglia è nata la legge sul Biotestamento.
Dall’Unione Sarda del 14 luglio 2019 la versione integrale dell’articolo di Michele Ruffi: