Espresso.it : intervista Marinella Maucioni.
“Walter diceva: voglio andarmene quando decido io, non la malattia. Lui c’è riuscito passando dal Tribunale. Ha trovato dei giudici assennati, che hanno applicato la Costituzione: ma non devono essere i giudici a stabilire queste cose. Deve essere la legge”.
Walter Piludu, ex presidente della provincia di Cagliari, malato di Sla dal 2011, è morto il 3 novembre dopo aver ottenuto – con una sentenza molto importante, vista la materia – che il Tribunale
ordinasse alla Asl di staccargli il respiratore e metterlo sotto sedazione. Sua moglie Marinella racconta per la prima volta la battaglia che ha condotto suo marito, e lei con lui. Lo fa controvoglia,
contrastando una spiccata riservatezza, nelle settimane in cui – come raccontiamo nel numero in edicola domenica – dopo anni di silenzio la Camera ha ricominciato a discutere un ddl sul biotestamento che avrebbe anche i numeri per andare avanti.
“Mi espongo obtorto collo, sperando che serva ad ottenere quello che lui voleva: che il Parlamento approvi finalmente una legge sul fine vita, per dare a chi è malato il diritto di decidere.
Sin dalla diagnosi di Sla, lui voleva questo. Avere la possibilità di scegliere il momento: qui, in Italia, in modo trasparente.
Avrebbe potuto trasferirsi in Svizzera, o fare una cosa aumm aumm: ma non era questo il suo stile. E’ sempre stato un politico – ‘in misura ridotta’, diceva – anche di questo ne ha fatto politica.
E non si faceva illusioni. Sapeva che ci sono tempi, modi e necessità di mediazione: ma continuava a pensare che la politica dovesse avere un obiettivo alto, quello del benessere sociale”.
“Walter non ha mai cambiato idea, fino all’ultimo al medico che si è occupato di lui, rispondeva non “sì”, ma addirittura “andiamo avanti”. Però non era depresso o chiuso, proprio per niente, era molto vivo: e, al limite, era piuttosto incavolato con la sua malattia, la chiamava ‘la mia amante esigente’. Era restio a mostrarsi intubato, immobilizzato, ma poi l’ha fatto: lettere aperte, convegni, interviste. Fino all’estate 2015, quando si decise a fare la tracheotomia. Lui non voleva perdere la parola, ci teneva molto. Ma non ce la faceva più: il respiratore nasale non era più sufficiente, aveva anche problemi di deglutizione. Temeva di morire soffocato senza che si potesse intervenire. Decise dunque di farsi la tracheo, e con quella anche la Peg, l’alimentazione forzata.
Da allora ebbe un tubo in gola e un tubo in pancia”.
“La Sla, non so se lo sa, è una malattia terrificante: funziona tutto, ma il corpo diventa man mano una gabbia di cemento. Non si muove più niente, solo gli organi interni funzionano. Walter si è preso tutti gli spazi di libertà che poteva. Fino a quando ha potuto ha resistito anche all’utilizzo del catetere: gli si muoveva ancora un dito, gli avevamo attaccato al dito un campanello, cosicché quando ne aveva bisogno poteva chiamare gli assistenti. Poi anche il dito ha smesso di muoversi. Sperava, comunque, che tracheo e peg gli consentissero di avere una vita: si è accorto di no.
Invece che come un miglioramento, lo ha vissuto come un peggioramento della qualità della sua vita.
Anche perché è iniziato un turbinio di assistenza domiciliare, e poi la manutenzione di questi supporti, la cannula della tracheo da cambiare, la peg che può saltare. Si sentiva ormai una cosa.
Gli rimaneva una grande lucidità mentale, le funzioni cognitive sono state persino potenziate dalla malattia. E così ha iniziato a rendersi conto che stava venendo meno la sua motilità oculare. Praticamente la sua ultima occasione di comunicare. L’immobilità degli occhi avrebbe voluto dire per lui essere sepolto vivo dentro il suo corpo, non poter usare più neanche il comunicatore a comandi oculare, col quale scriveva con fatica, lettera dopo lettera”.
“Così, dopo la delusione della tracheo e della peg, nell’autunno 2015 mi disse me ne voglio andare, aiutami. C’era da scrivere alla Asl, per chiedere di non essere più curati: riuscii a farlo rimandare, prima per via del Natale, poi per i compleanni. Poi lui mi ha chiesto: mi stai abbandonando anche tu? Così siamo andati avanti”.
“Se di una cosa si è pentito, mio marito è aver percorso la via istituzionale, ma solo quando si è accorto che si trattava di una via lunga. Per lui, a quel punto, i mesi valevano anni. Anche perché stava perdendo la motilità oculare. ‘Possibile che non si possa dare veleno!’, diceva allora, nel momento dell’emozione. Ma poi era razionale: non si faceva guidare dalle emozioni, il che non vuol dire che non le avesse”.
“Dovendo scrivere alla Asl, si è posto il problema di come si poteva certificare la volontà di Walter. Abbiamo contattato tre notai, hanno risposto la stessa cosa: non è il loro lavoro certificare le volontà espresse da un singolo, i notai certificano le transazioni. Alla fine abbiamo capito che serviva la Pec. La posta certificata. Però deve essere l’interessato a chiedere la Pec. Quindi mio marito si è messo con un tecnico, per fare questa richiesta. Quasi tre mesi ci abbiamo messo. Poi, con una mail, ha chiesto che venissero staccati tutti i presidi che lo tenevano in vita, e che insieme gli si garantisse una morte senza dolore, ovviamente. Il giorno dopo tutti i dirigenti sanitari di Cagliari erano in pompa magna a casa, per capire se lui fosse davvero così deciso. Due giorni dopo abbiamo avuto una risposta. Interlocutoria: comprendevano il problema, ma c’erano tante implicazioni etiche e giuridiche, per cui dovevano consultare i loro esperti”.
“Dopo quasi due mesi di silenzio e un sollecito informale, ci siamo rivolti al giudice tutelare di Cagliari perché imponesse alla Asl di agire. Già i primi di luglio abbiamo avuto un’udienza, a casa di
Walter, e nel giro di due settimane hanno deliberato il provvedimento. La Asl ha quel punto ha comunicato che doveva trovare un medico che accettasse di farlo. Su settanta anestesisti che ci sono là. Dopo molte difficoltà, ne hanno trovato uno: persona degnissima, encomiabile, che abbiamo frequentato per circa un mese anche perché c’era da trovare il personale infermieristico, e non era facile neanche quello. Poi arrivò anche un testimone, uno psicologo che la Asl volle presenziasse a tutte le fasi, e che se ne stette lì, in un angolo, come una statua di sale, fino alla fine”.
“E’ stato un percorso difficile, per una cosa difficile. Molto doloroso. Lo è stato anche comunicare a nostra figlia e alle sorelle di Walter che cosa lui avesse chiesto, chiedere che lo sostenessero e che mi aiutassero. Io sono d’accordissimo sul fatto che uno debba autodeterminarsi, se mio marito era ateo io sono agnostica, non ho aspettative su un’altra vita, penso che dobbiamo decidere da noi, per quanto possiamo. Ma comunque, senza fare discorsi filosofici, non è semplice quando la cosa ti tocca, tocca la persona con cui hai vissuto da quando avevi 23 anni, con cui hai una storia in comune. Fosse stato per me – per noi tutti che gli eravamo vicini – lui continuava a esser lui, anche se non potevamo più fare alcune cose. Ma per lui non era la stessa cosa. Che potevo fare, allora? Una volta persa la motilità oculare, Walter non avrebbe più potuto nemmeno esprimere la sua volontà. Dunque non potevo dirgli di no, sarebbe stato di un egoismo assoluto. Bisognava accettare che andasse. Non c’è mai stato dubbio, quindi. L’unica preoccupazione era di non perderci un suo eventuale cambiamento di idea. Glielo avevo detto: fino all’ultimissimo istante ti chiederò se sei d’accordo, altrimenti non c’è problema, smontiamo tutto”.