Eu-thanasìa e diritti infelici tra il vivere e il morire – L’articolo di Maria Paola Masala
Dal Vangelo di Luca:
«Guai anche a voi, dottori della legge,
che caricate gli uomini di pesi insopportabili,
e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito!».
«A un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire l’ultima speranza». Beppino Englaro cita Sciascia, “Una storia semplice”, nel raccontare quei 6233 giorni di calvario di sua figlia Eluana, dall’incidente alla morte. Diciassette anni e 22 giorni di agonia per lei, e di battaglia per la sua famiglia. Nel suo intervento al convegno “Eu-thanasia e diritti infelici tra il vivere e il morire”, promosso giorni fa a Cagliari, alla Fondazione di Sardegna, dall’Associazione Walter Piludu per Le Libertà, la chiama sempre la ragazza, oppure la Eluana. Mai mia figlia. E il suo non vuole essere un modo per distanziarsi da un dolore troppo grande, ma più semplicemente un rispettoso passo indietro, per permettere soltanto a lei di emergere in tutto il suo tragico splendore. Non c’è alcun tono drammatico, nell’esposizione di quest’uomo così straordinariamente degno. Nessuna recriminazione. Soltanto il racconto di una ragazza speciale, piena di vita. Fino a quel giorno. «Il destino è stato beffardo con lei». Aveva 21 anni, e soltanto un anno prima aveva frequentato la Rianimazione per stare vicina all’amico Alessandro, chiamato da tutti Furia per la sua prorompente vitalità, fino al terribile incidente stradale che lo aveva mandato in coma irreversibile. Aveva acceso un cero, pregando che morisse. «Furia non si può imbrigliare, ci diceva la Eluana. E noi sappiamo bene che non avrebbe mai voluto finire come lui. Aveva un anelito inesausto per la libertà. Un mese prima dell’incidente, il 18 gennaio del 1992, ci aveva scritto una lettera su questo argomento. La trovammo quindici anni più tardi. Ma non avevamo bisogno di leggerla per sapere come la pensava. La Eluana non aveva paura della morte. Il tabù era la profanazione del corpo. Mai avrebbe concepito che qualcuno potesse disporre della sua vita».
Per questo, racconta Englaro, «abbiamo fatto tutto per aiutarla a morire. L’imperativo dei medici era curarla, pur sapendo che non sarebbe mai uscita dal suo stato vegetativo, il nostro liberarla. Oggi c’è una legge che vieta l’accanimento terapeutico. Dipende solo da voi, e dalla vostra coscienza. Ma dovete mettere nero su bianco».
I tempi sono cambiati, dice Englaro, che ha lottato per interminabili anni perché fosse riconosciuto a sua figlia il diritto di andarsene come avrebbe voluto. Una battaglia avviata nel ‘99, sette anni dopo l’incidente, e durata dieci anni. Eluana è morta il 9 febbraio del 2009. Altri dieci anni sono passati da allora.
E anche per questo motivo questo uomo è stato invitato dall’associazione nata con l’intento di raccogliere l’identità morale di Walter Piludu, e di promuovere e difendere i diritti civili garantiti dalla Costituzione. Come i “Diritti infelici”, che sono quelli che consentono alle persone con malattie inguaribili di poter vivere in maniera un po’ meno infelice il tempo che resta, e di andarsene con dignità.
La stessa dignità auspicata dagli altri relatori intervenuti all’incontro, coordinato dalla presidente dell’Associazione, la giurista Alessandra Pisu, e aperto da Marinella Maucioni, moglie di Walter Piludu e socia fondatrice, che ha spiegato il senso del convegno e presentato i relatori.
Dopo Beppino Englaro è spettato a don Ettore Cannavera, fondatore della Comunità La Collina di Serdiana, ribadire la sua linea di apertura nei confronti di un tema così divisivo, la sua profonda convinzione che sia necessario confrontarsi con tutti, credenti e laici, per arrivare a una soluzione comune, basata sulla considerazione che la sacralità della vita non debba mai essere disgiunta dall’umanità. «E senza relazione non c’è umanità. La vita è un dono, ma è anche un progetto. Venuta meno la possibilità della relazione che sostanzia l’esistenza umana, chi meglio della persona stessa può dire se il proprio vivere è giunto a compimento? Morire con dignità questo significa».
Di dignità, libertà, e autodeterminazione ha parlato Maria Grazia Cabitza, magistrata del Tribunale civile di Cagliari, nel ripercorrere il cammino della giurisprudenza attraverso l’applicazione dei principi costituzionali al rapporto-medico paziente, e nel ribadire il diritto inviolabile della persona a rifiutare trattamenti sanitari ritenuti inconciliabili con la sua visione della vita. Un percorso, quello giurisprudenziale, che ha tracciato linee interpretative utili a risolvere alcune criticità della legge n. 219/2017 e i conflitti che ancora potranno presentarsi in futuro con riguardo a pazienti incapaci che non abbiano redatto Disposizioni Anticipate di Trattamento.
Magistrato, e cattolico “molto praticante” si è definito il napoletano Eduardo Savarese, autore di un libro insolito, speciale già nel titolo, “Il tempo di morire”, che affronta in termini «né giuridici né etici ma intimi», il tema del fine vita. Una riflessione personale, profonda, la sua, piena di sfumature e di riferimenti alla coscienza come realtà assolutamente personale e insindacabile, e pertanto da rispettare. La coscienza, dice Savarese, «non ha a che fare solo con la ragione, ma anche con l’istinto, con la memoria, con tutto un sostrato della nostra esistenza, e quando interrogata, ci dice una risposta che noi sentiamo vera».
La vera e radicale scelta è se fidarsi o meno della coscienza dell’uomo, della bontà del processo di formazione della nostra coscienza. Possiamo/vogliamo fidarci della libertà dell’uomo? O abbiamo bisogno di rassicurazioni da un potere esterno?
Il diritto, ha proseguito, è una scienza necessaria, ma limitata, povera e per certi versi frustrante. Non si può far carico della intimità della nostra coscienza. Ma si può fare carico della bontà delle nostre scelte, se sono più ampiamente e oggettivamente riconoscibili sul piano sociale. Non ci può essere una legge che dà diritto al suicidio, che è un atto personale, però non c’è la possibilità della comunità umana di dare delle condanne generali e astratte. Ci deve essere sempre molto rispetto perché non piace a nessuno morire e ci sono ragioni profonde se la coscienza dice che è arrivato il momento in cui tutto è compiuto. Le scelte individuali vanno rispettate purché – ha concluso – non contrastino con il patto sociale sancito dalla nostra Costituzione, perché in tal caso l’appello alla coscienza sarebbe arbitrario, illegittimo e inaccettabile.
A chiudere una serata densa di stimoli e di riflessioni, due medici.
Il farmacologo Marco Pistis ha ricordato come ci siano ancora molte malattie per le quali non esistono terapie efficaci e dunque i pazienti vivono condizioni di estrema sofferenza.
Nel proporre un excursus dei casi di eutanasia attiva e passiva nei vari stati europei ha ribadito l’esigenza di regole certe, contro ogni possibile arbitrarietà, evidenziando il pericolo di fenomeni di morti assistite nella clandestinità, di una altrimenti preoccupante disparità di trattamento e dell’uso di protocolli non adeguati a garantire al paziente il minimo della sofferenza e la massima dignità nel morire. Laddove l’eutanasia è regolamentata – afferma lo studioso – esistono regole molto precise che consentono di ovviare a tali pericoli e vanno nella direzione della protezione del paziente e della sua volontà. Un ulteriore effetto della legalizzazione della morte assistita sembra essere la promozione delle cure palliative alle quali si ricorre con frequenza uguale se non maggiore di quanto avviene nei paesi nei quali la morte assistita è illegale, come si evince dai dati di recenti ricerche fatte in Francia e in Belgio.
Ed infine a chiudere i lavori l’intervento commosso di Mario Cardia, l’ultimo medico di Walter Piludu. Una testimonianza, la sua, in qualche modo speculare alla lucida analisi di Englaro.
Da Eluana a Walter. Dopo anni di battaglie, in seguito al provvedimento del Tribunale di Cagliari che ha riconosciuto all’ex presidente della Provincia di Cagliari ormai devastato dalla Sla il diritto di ottenere il distacco dei dispositivi che lo tenevano artificialmente in vita (in virtù dell’art.32 della Costituzione che garantisce l’autodeterminazione terapeutica), Piludu ha incontrato sulla strada del suo calvario il dottor Cardia. Quello che ha risposto alla richiesta della Asl 8, e ha accettato di mettere fine alle sue sofferenze. «Lo dissi ai dirigenti della Asl, quando li incontrai, che se mi fossi trovato nelle condizioni del signor Piludu avrei voluto trovare sulla mia strada un Mario Cardia disposto ad addormentarmi e a staccare il ventilatore». Quel 3 novembre del 2016, quando la legge 219 sul testamento biologico non era ancora stata approvata, e tra medico e paziente si era creato un legame forte di fiducia, quel “diritto infelice” garantito dalla Carta costituzionale, conosciuto da pochi e spesso messo in discussione, diventò per quell’uomo lucido, generoso, coerente, ricco di dignità e di eticità, la liberazione da una prigione ormai intollerabile.
La svolta segnata sul finire del 2017 dall’approvazione della legge sul testamento biologico, per la quale non si può effettuare nessun trattamento sanitario senza consenso, ha rappresentato l’ultima delle tante battaglie di Walter Piludu. Il prossimo 24 settembre scade il termine entro il quale, sollecitato dalla Corte Costituzionale, il Parlamento dovrà legiferare sul fine vita e sulla buona morte, integrando così il provvedimento con una legge che risponda alle esigenze di una società matura, libera, rispettosa della coscienza di ciascuno. Quella che Walter sognava, e per la quale si è battuto fino al 3 novembre del 2016. Soprattutto quel 3 novembre.
Maria Paola Masala