La lezione di vita di Walter Piludu
LE INTERVISTE DELL’UNIONE – di Paolo Matta – 03/04/2017
EUTANASIA, SUICIDIO ASSISTITO, TESTAMENTO BIOLOGICO. PARLA LA VEDOVA DELL’EX PRESIDENTE DELLA PROVINCIA DI CAGLIARI, MORTO DI SLA: «C’È TROPPA CONFUSIONE, È ASSURDO DIVIDERSI, SIAMO TUTTI PER LA VITA».
Nel salone solo due foto, due piccoli ritratti, uno istituzionale («quando Walter era presidente della Provincia, alla fine degli anni Ottanta, inizio Novanta»), l’altro di famiglia, «l’ultimo viaggio negli Stati Uniti che tanto amava, a San Francisco, a diagnosi oramai accertata». Marinella Maucioni non ama parlare di sé, mettere a nudo sentimenti
e ricordi che vuole conservare nel suo scrigno segreto. Insegnante di filosofia («da pochissimo in pensione», aggiunge con un pizzico di disappunto), la vita le ha riservato un osservatorio particolare e devastante: quello
di condividere, attimo per attimo, l’inesorabile avanzare della malattia del marito, Walter Piludu, fino agli ultimi istanti.
Partiamo da lontano, da San Francisco, da quell’ultimo viaggio negli States…
«Era stato proprio il neurologo, con grande lucidità, a raccomandare a Walter di non perdersi alcuna occasione di gustare la sua vita fino a quando fosse stato padrone di tutte le sue facoltà. E così è stato, perché poi la malattia ha avuto un progresso spaventosamente veloce».
Parliamo di una persona culturalmente raffinata, con cui non era possibile ricorrere a sotterfugi o patetici giri di parole.
«Walter, fin dal primo momento, visse tutto con grande lucidità e razionalità. Ma, allo stesso tempo, anche con grande lungimiranza ».
In che senso?
«Nel senso che mio marito, proprio per la sua alta concezione della politica, come servizio nobile alla collettività, si è visto quasi costretto a rendere pubblico questo suo laico calvario e, in questo modo, venire incontro alle istanze di tante persone che, come lui, condividevano questa terribile patologia».
La prima diagnosi risale al 2011 ma da subito Walter Piludu ha chiaro il decorso e lo scenario al quale sta andando incontro.
«Già un anno dopo la diagnosi, la malattia è avanzata velocemente. Walter, che non è uno sprovveduto, ha chiarissimo ciò a cui sta andando incontro. Sa benissimo quale sarebbe stato il suo capolinea. E, nel 2014, decide di rendere pubblica la sua malattia».
In altre parole, aveva già deciso di non voler arrivare a una situazione in cui non fosse più in grado di vivere in maniera dignitosa la sua malattia.
«Aveva posto dei paletti. Il primo legato alla perdita della voce: non potendo più comunicare con gli affetti più cari, con il mondo, a quel punto avrebbe voluto porre fine alla sua esistenza perché non più degna di essere vissuta».
Paletti che lui stesso, poi, spostò in avanti.
«Grazie al computer a comandi oculari, Walter riuscì a trovare ulteriore senso alla sua vita, pur vivendo una sofferenza psicologica atroce, impossibilitato com’era a concedersi qualunque libertà, fosse anche la più banale».
Perché questa malattia diventa poi un “caso nazionale”?
«Mio marito avrebbe potuto risolvere la sua questione in modo privato, andando in Svizzera come fanno tanti altri. Lui ha scelto un percorso istituzionale, legale, perché era una persona profondamente politica nel senso più alto del termine. Quindi, un problema che riguardava tante altre persone come lui, non poteva essere risolto nella clandestinità ma solo facendolo diventare autenticamente sociale. Per uno che era così profondamente, direi eticamente, rigoroso, era scontata la messa al bando di ogni forma di illegalità».
Dove sono nati, allora, gli ostacoli, dal momento che esiste un articolo della Costituzione italiana che dovrebbe normare tutta questa materia?
«L’articolo 32 della nostra Costituzione garantisce a ogni cittadino il diritto di rifiutare le cure. È lo stesso su cui si fonda il consenso informato di cui abbiamo già forme giuridiche che lo consentono. Mio marito si è appellato a questo articolo 32 e al numero 13 («La libertà del cittadino è sacra e inviolabile») per chiedere a chi lo curava di essere staccato dalle macchine».
Dalla Asl, però, solo risposte vaghe, tentennamenti, rimandi. Da qui la vostra decisione di rivolgervi al giudice tutelare.
«Fortunatamente abbiamo trovato dei giudici assennati che hanno emanato un provvedimento che “intimava” (brutto dirlo, ma era proprio così) alla Asl di dare seguito alla richiesta di mio marito».
Altri mesi… però
«Sì, anche perché l’esito non era scontato. Valga il caso di Nuvoli cui il giudice di Sassari aveva negato l’assenso interpretando in maniera restrittiva lo stesso articolo della Costituzione. Quei mesi, per mio marito, sono stati anni anche perché stava rapidissimamente perdendo la mobilità oculare e quindi l’ultima possibilità di comunicare con il mondo esterno. Sapeva che di lì a pochissimo sarebbe stato un sepolto vivo all’interno del suo corpo».
Non tutti però, nelle stesse condizioni di suo marito, fanno questa scelta.
«Altri riescono a trovare ancora un senso alla propria vita. Ma questo è meraviglioso. Se la legge in discussione sul DAT (disposizione anticipata di trattamento) dovesse essere approvata dal Parlamento, non rappresenterà un obbligo per nessuno».
Cerchiamo, allora, di fare chiarezza perché dalle sue parole sembra quasi che non ci sia alcun motivo di contendere mentre questo è tema che divide, fa discutere, contrappone credenti e atei.
«Molta responsabilità in questo hanno, a mio giudizio, i mass media. La legge in discussione non ha nulla a che fare con eutanasia o suicidio assistito. Dividersi su questo non ha senso. Non c’è nessuno che è per la morte. Mio marito, malato per cinque anni, fino a quando ha potuto si è battuto per questo. A un certo punto ha sentito dentro di sé che non ce la faceva più, che non era più una vita per lui».
In questo travaglio interiore, Walter Piludu scrive a tutti i capi gruppo parlamentari ma la stessa lettera la invia, lui – come scriverà – che non ha avuto il dono della fede, anche a Papa Francesco. Perché?
«Non c’è bisogno di essere credenti per stimare Papa Francesco che, più di ogni altro suo predecessore, ha questa grande capacità di dialogo e di mobilitazione della coscienze. Walter si è appellato alla pietas cristiana: ha chiesto al Papa di avere misericordia della sua sofferenza che non può essere imposta all’infinito».
E Papa Francesco ha risposto, non ha dato soluzioni ma, come nel suo stile, è stato vicino al dolore di Walter e lo ha fatto suo.