Fine vita e aiuto al suicidio. La Consulta rinvia il giudizio sull’art. 580 c.p. e sollecita l’intervento del legislatore
Con l’ordinanza n. 207/2018, depositata il 16 novembre scorso, la Consulta ha rinviato al 24 settembre 2019 l’esame di costituzionalità dell’art. 580 c.p.
La norma sanziona con la medesima pena della reclusione da 5 a 12 anni due distinte condotte: l’aiuto e l’istigazione al suicidio.
L’aiuto si identifica in un contributo materiale nell’attuazione dell’altrui proposito suicidario già formato.
L’istigazione consiste invece in un concorso morale nella formazione della volontà del suicida che viene indotto o rafforzato nel convincimento di procurarsi la morte. Si tratta evidentemente di una fattispecie connotata da un maggior disvalore.
La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata dalla Corte d’assise di Milano nel procedimento che vede imputato Marco Cappato per aver aiutato Fabiano Antoniani a mettere in atto il suicidio medicalmente assistito in Svizzera.
La Corte, ritenendo che solo le azioni che pregiudichino la libertà di decisione dell’interessato possano costituire offesa al bene tutelato dalla norma incriminatrice, ha rilevato il contrasto dell’art. 580 c.p. con alcuni principi sanciti dalla Costituzione. Più precisamente, la disposizione penale nella parte in cui sanziona le condotte di aiuto al suicidio – a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito suicidario – entrerebbe in conflitto con i parametri ricavabili dagli artt. 3, 13, 2 comma, 25, 2 comma e 27, 3 comma, Cost.
Lo scopo del rinvio disposto dal Giudice delle leggi è consentire al Parlamento di legiferare sulla delicatissima sfera delle scelte individuali nel fine vita di persone che si trovano in gravissime condizioni di salute e sofferenza. Situazioni che mettono in dubbio l’adeguatezza e la legittimità costituzionale della norma penale risalente al 1930.
Si tratta di una scelta inusuale, anzi inedita, almeno nel nostro ordinamento. È la medesima Corte Costituzionale a dare conto delle ragioni che l’hanno motivata. L’ordinanza, piuttosto articolata, si sofferma difatti anche sulla tecnica decisoria adottata che sollecita l’intervento del legislatore.
A determinare i Giudici in questa direzione, la delicatezza di una materia eticamente sensibile e altamente problematica che, nella sua complessità, affonda le radici nel dettato costituzionale e reclama interventi normativi che bilancino gli interessi in gioco, colmando il vuoto di tutela di alcuni «valori pienamente rilevanti sul piano costituzionale».
La Corte Costituzionale ha così avviato con il legislatore una dialettica non sconosciuta nell’esperienza giuridica di altri paesi. In Canada, ad esempio, nel 2016 si è riconosciuto per legge il diritto del malato terminale di morire con l’aiuto del medico e di chiedere l’eutanasia, dopo una storica decisione della Corte Suprema che si era pronunziata l’anno precedente. Qualcosa di simile è recentemente avvenuto nello stato australiano di Victoria.
Il redattore dell’ordinanza, oltre ad auspicare l’intervento del legislatore, ha fornito importanti indicazioni.
Il provvedimento, da una parte, conferma che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non è di per sé contrastante con i parametri che si ricavano dalla Costituzione (artt. 2, 13 e 117) e dalla CEDU (artt. 2 e 8, rispettivamente, sul diritto alla vita e sul diritto al rispetto della vita privata e familiare) e sottolinea come l’art. 580 c.p. conservi tutt’oggi una sua ragion d’essere anche a tutela di persone malate e fragili. Dall’altra, riconosce che vi sono alcune situazioni, inimmaginabili al tempo di redazione di quella norma, che necessitano un’adeguata tutela e che è opportuno siano regolate per legge.
Si tratta di casi che il Giudice delle leggi individua in modo puntuale riferendosi a situazioni nelle quali la persona, capace di prendere decisioni libere e consapevoli, è tenuta in vita tramite trattamenti di sostegno vitale ed è affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche assolutamente intollerabili. In queste fattispecie, la Consulta riconosce che l’assistenza di terzi nel porre fine alla propria esistenza può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto, che egli ha il diritto di rifiutare.
V’è dunque un vulnus da colmare in nome di valori costituzionali che richiedono un bilanciamento, non potendosi semplificare e serrare il dibattito sul fine vita accentrando le posizioni intorno all’uno o all’altro dei valori in gioco: la vita, da una parte, bene primario e fondamentale, la dignità del morire e l’autodeterminazione individuale dall’altra, altrettanto importanti nel quadro dei diritti della persona che la Carta fondamentale mette al centro del sistema.
Dalle valutazioni della Corte emerge chiaramente come nessuna delle due prospettive possa imporsi all’altra con una forza assiologica preminente, tanto meno assoluta. Da qui l’esigenza – non più procrastinabile – di un contemperamento che sappia preservare il valore fondamentale del diritto alla vita, senza trasformarlo in una pervicace e ottusa difesa che ignori i bisogni che alcune particolari ed insostenibili situazioni di sofferenza determinano nell’individuo gravemente ammalato.
La ragione della collaborazione richiesta al Parlamento è presto detta: nel regolamentare la materia vi sono da compiere alcune scelte discrezionali che competono al legislatore. La Corte ne individua alcune tra le più significative e problematiche: «ad esempio, le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilità di un’obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura».
La Corte si spinge perfino a suggerire al legislatore la via da percorrere laddove scrive: «una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso la sedazione profonda continua e correlativo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, ma anche attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, potrebbe essere introdotta, anziché mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen., in questa sede censurata, inserendo la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della “relazione di cura e fiducia tra paziente e medico” opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima».
Nel contempo, avverte dell’esigenza di adottare opportune cautele affinché non si crei il rischio di una prematura rinuncia alle cure palliative e affinché le strutture sanitarie mettano sempre il paziente «in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza».
Non è la prima volta che la Consulta ammonisce il Parlamento in ordine al suo potere di legiferare sul fine vita.
Lo fece già nel 2008 quando, nel respingere il conflitto di attribuzioni proposto dalle Camere nei confronti delle Corti che avevano deciso il caso Englaro, indirizzò al Parlamento, che pure in quel giudizio aveva “accusato” i giudici di aver invaso uno spazio riservato al legislatore, un’esortazione esplicita. In chiusura della decisione, la Corte ammoniva i ricorrenti (Camera dei Deputati e Senato) ricordando che avrebbero potuto «in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti».
Le “sentenze monito” non hanno mai riscosso un grande successo. Così è stato anche per quella. Definendo il giudizio di costituzionalità, tali decisioni privano la Corte della possibilità di ovviare, sempre nei limiti delle sue competenze, all’inerzia del legislatore. La materia del fine vita ne fornisce triste riprova.
Ci sono voluti difatti quasi dieci anni perché l’invito del 2008, paradossalmente rivolto in un giudizio nel quale il Parlamento rivendicava il suo potere di legiferare nella materia, venisse recepito.
Solo alla fine del 2017, infatti, è stata approvata la legge n. 219, che riconosce in modo inequivocabile e certo un diritto che, fino a quel momento, la giurisprudenza aveva dapprima negato, nei casi Welby e Nuvoli, e poi riconosciuto, nel caso Piludu. L’art. 1, comma 5, della legge entrata in vigore il 31 gennaio 2018 sancisce il diritto al rifiuto e all’interruzione dei trattamenti sanitari, anche di sostegno vitale. A questo punto è chiaro però che quanto stabilito non è sufficiente. Non tutte le situazioni di sofferenza, che meritano protezione in nome dei diritti fondamentali delle persone coinvolte, trovano adeguata tutela nelle norme di recente introduzione. Da qui la necessità di un nuovo intervento legislativo che offra soluzioni equilibrate.
Il tentativo della Consulta è permeato, dunque, da una pregevole lungimiranza. È finalizzato ad un pieno esercizio del ruolo di garante e custode dei valori costituzionali che la Carta fondamentale le assegna. La decisione, lungi dall’esorbitare dai confini del potere che le compete, deve essere inquadrata in una prospettiva di collaborazione istituzionale che la Corte ha voluto avviare. Una collaborazione che è auspicabile il Parlamento voglia intrecciare, rientrando nelle sue prerogative e nei suoi doveri fornire, con legge dello Stato, risposte concrete ai nuovi bisogni di tutela che emergono nella società civile.
Prof. Alessandra Pisu
Associato di diritto privato UniCa
Il provvedimento della Consulta è disponibile al seguente link: