Qualche riflessione sulla sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il referendum “Eutanasia legale”
Con la sentenza dello scorso 2 marzo (n. 50/2022) la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità della richiesta di referendum abrogativo della norma sulla quale si fonda l’attuale divieto di eutanasia nel nostro paese.
La decisione ha sbarrato la strada a un fondamentale strumento di partecipazione democratica segnando una pesante, ma certamente momentanea, battuta d’arresto nell’affermazione dei diritti della persona umana al traguardo dell’esistenza.
Un quesito etico immane, sulla disponibilità/indisponibilità della vita, era sotteso alla richiesta di abrogazione parziale dell’art. 579 c.p., che punisce l’omicidio del consenziente.
E così, tra le due vie percorribili: non ammettere il referendum ostacolando, di fatto, il riconoscimento di alcuni diritti che il Parlamento ha dimostrato ampiamente di non saper proteggere e sui quali tantissimi cittadini hanno chiesto di potersi pronunciare; oppure, consentire il voto, rimettendo al legislatore il compito di disciplinare la materia, con l’adozione di tutti gli aggiustamenti richiesti dall’eventuale abrogazione, si è scelta la prima.
La decisione segna una distanza abissale tra l’istituzione e la società civile, alla quale in molte altre circostanze la Consulta ha saputo dare ascolto, eliminando divieti di legge inadeguati, dando voce ai bisogni delle persone e aprendo il sistema all’affermazione di nuovi diritti.
L’esame delle motivazioni rivela, immediatamente, una certa debolezza argomentativa.
La difesa di un unico valore “la vita”, astrattamente e in sé e per sé considerato, si erge in modo assoluto, quasi tiranno.
A detta della Corte, il venir meno del reato di omicidio di persona consenziente, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, arrecherebbe «ex se un pregiudizio totale all’applicazione di un precetto costituzionale».
Tuttavia, la decisione non contiene alcuna spiegazione del perché dalla centralità della persona umana – alla quale la Carta fondamentale guarda «come a un valore in sé» – discenda una netta, inflessibile e incondizionata difesa del valore della vita, naturalmente mai negato da alcuno, e non anche la concorrente protezione degli altri interessi apicali in gioco: la dignità, l’identità e l’autodeterminazione della persona al cospetto della morte, la solidarietà di chi appresti un aiuto al morente. Diritti e valori fondamentali, indubbiamente sacrificati dalla norma incriminatrice, sui quali non si postula alcun bilanciamento.
Si dirà, il giudizio di ammissibilità dei referendum non è la sede per operare bilanciamenti. Corretto, ma neppure per inscenare un corpo a corpo tra diritti facendone soccombere una pluralità e trionfare incondizionatamente uno. Tanto più che si trattava di rimettere la scelta al corpo elettorale e che, qualunque fosse stato l’esito della consultazione popolare, tutta di là da venire, essa non avrebbe precluso al Parlamento la possibilità, oserei dire il dovere, di esercitare la discrezionalità che compete all’organo legislativo.
Eppure, l’assetto valoriale desumibile dalla sentenza della Corte costituzionale è unidirezionale. E di questo il Parlamento italiano si farà scudo a lungo per non ammettere l’eutanasia.
La decisione di inammissibilità, difendendo il bene vita oltre il limite della volontà autonoma del titolare (quale vita poi è domanda che non sfiora la mente del Giudice delle leggi), sacrifica evidentemente una libertà costituzionalmente incomprimibile, ossia quella di autodeterminarsi nelle scelte esistenziali, cadendo esattamente nel medesimo vizio ingenerosamente imputato ai promotori del referendum.
Sul fronte della necessaria tutela dei soggetti fragili e incapaci di prestare un consenso serio, lucido e consapevole – tutela peraltro non intaccata dal quesito, che lasciava ferma la previsione del terzo comma dell’art. 579 c.p. – la motivazione scivola sul generico riferimento a condizioni di “vulnerabilità” dai confini così vaghi e incerti da risultare inafferrabili per il medesimo estensore il quale, con accortezza, non si avventura in alcuna specifica esemplificazione. Evoca, piuttosto, «fattori di varia natura», «non solo di salute fisica, ma anche affettivi, familiari, sociali o economici», che potrebbero condurre a «scelte autodistruttive», «non adeguatamente ponderate». Eppure, era stato il medesimo redattore – qualificando i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze come soggetti vulnerabili – a scrivere, nella sentenza sul caso Cappato-Antoniani, che se costoro sono considerati dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di un trattamento di sostegno artificiale, non si vede la ragione per la quale, a determinate condizioni, non possano «ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri».
Per arrivare al risultato prescelto la Consulta, per un verso, sconfessa sé stessa, cimentandosi giocoforza nell’esame della normativa di risulta e dei suoi effetti pregiudizievoli per la tutela del bene vita, valutazione teoricamente preclusa nel giudizio di ammissibilità del referendum. Per l’altro, adopera ad arte la propria precedente giurisprudenza con la quale aveva forgiato, via via adattandolo alla bisogna, il limite delle “leggi costituzionalmente necessarie” a garantire una “tutela minima necessaria” a taluni valori apicali.
Sennonché, nei precedenti richiamati dalla decisione, la tutela della vita non si riconnette mai alla vera questione sottesa al quesito referendario, ossia: il diritto penale deve proteggere il bene oltre le offese provenienti da terzi e fino a punire le condotte di aiuto a morire invocate dal titolare della cui vita si tratta anche se capace di assumere una decisione libera e consapevole? E in nome di quali prevalenti valori costituzionali può giustificarsi un’ingerenza così profonda nella sfera esistenziale umana?
Perché qui è il punto: la Corte enuncia implicitamente che siamo al cospetto di un’incriminazione costituzionalmente necessaria; benché essa stessa – in occasione del giudizio di inammissibilità del referendum sulla legge che disciplina l’interruzione volontaria della gravidanza – avesse affermato, in un obiter finale della sentenza (n. 35/1997): «è dubbio in via generale se la Costituzione, al di là di imperativi specifici, contenga o possa contenere obblighi di incriminazione, che è quanto dire obblighi di protezione mediante sanzione penale, di determinati interessi costituzionalmente protetti».
Sempre dall’insegnamento della Corte, che dobbiamo ad altri precedenti richiamati nella sentenza n. 50/2022, apprendiamo che le leggi costituzionalmente necessarie, in quanto «dirette a rendere effettivo un diritto fondamentale della persona», «non possono essere puramente e semplicemente abrogate, così da eliminare la tutela precedentemente concessa, pena la violazione diretta di quel medesimo precetto costituzionale della cui attuazione costituiscono strumento», ma «possono essere dallo stesso legislatore modificate o sostituite con altra disciplina». Tuttavia, l’art. 579 c.p., nella parte oggetto di richiesta referendaria, non può considerarsi norma diretta a “rendere effettivo” un diritto fondamentale della persona. Non sono certo i divieti penali che comprimono la libertà personale a rendere effettivo il diritto alla vita, semmai piuttosto le leggi civili che regolano il “vivere”.
Sorge dunque il dubbio: la normativa sottratta alla consultazione popolare offre una tutela “minima” o “massima” del bene vita?
L’art. 579 c.p., nella parte che il quesito considerava a fini abrogativi, rappresenta una cintura protettiva per le persone fragili o una camicia di forza per chiunque?
È scopo precipuo del diritto penale impedire alla persona umana decisioni libere e consapevoli sulla propria vita e la propria morte? O la pretesa punitiva statale dovrebbe rivolgersi esclusivamente alle offese esterne reagendo agli attacchi non richiesti, né voluti, alla vita (altrui)?
A mio avviso, la normativa che sarebbe scaturita dall’abrogazione referendaria preservava il nucleo costituzionalmente irrinunciabile della tutela della vita mantenendo ferma la punibilità del fatto se commesso contro un soggetto non in grado di esprimere una volontà ferma, lucida e consapevole.
L’assetto normativo attuale, invece, sacrifica ingiustificatamente il diritto di essere sé stessi proprio in quel delicatissimo frangente che esaurisce l’esistenza umana nel quale ciascuno dovrebbe poter esprimere la propria identità personale, culturale e valoriale costruita in un’intera vita.
Una decisione politica, dunque, che lascia insoddisfatti bisogni impellenti che dal corpo sociale cercano di far riemergere il senso più autentico e profondo della parola Eu-thanasìa.
Alessandra Pisu
Presidente Associazione Walter Piludu ETS APS